Archivi categoria: Benessere personale

Attenzione a cosa fai attenzione!

Foto di Tumisu da Pixabay

Facciamo un viaggio nel passato, a tre mesi fa.

Decidendo di uscire di casa ci saremmo vestiti, avremmo preso il necessario, le chiavi di casa e/o della macchina e saremmo usciti. Gesti automatici, poca concentrazione.

Oggi nell’uscire di casa dobbiamo inserire altre azioni, prima mai vissute: indossare la mascherina; ricordarci i guanti e igienizzare le mani; non toccarci il volto; osservare dove appoggiamo le nostre borse e chi incrociamo in strada o tra gli scaffali del supermercato; igienizzare la macchina, se la usiamo; incontrare, ma non toccare né abbracciare i parenti e le persone per noi significative; igienizzare più volte le mani e lavarle bene quando rientriamo a casa.

Quello che è cambiato da 3 mesi a questa parte è l’uso della nostra attenzione.


Ma cosa è l’attenzione?

Per attenzione si intende un processo cognitivo complesso che ci permette di organizzare le informazioni che provengono dal mondo e, in base a queste, di regolare la nostra mente, i nostri pensieri e le nostre azioni.

L’attenzione è quella che ci permette di captare determinati stimoli, distinguere tra quelli per noi rilevanti e quelli invece indifferenti, e organizzare una risposta a livello mentale e poi comportamentale. È come se, grazie all’attenzione, avessimo una lente di ingrandimento che si focalizza su alcune parti, tralasciandone altre.

Nella nostra esperienza ci sarà capitato di non capire (e magari arrabbiarci) perché alcune persone non prestano attenzione a eventi o situazioni che per noi sono importanti; oppure non comprendere come, in uno stesso discorso, alcuni si soffermino su punti che noi non avevamo nemmeno colto.

Questo accade appunto perché ognuno di noi sviluppa un’attenzione differente, in base all’importanza e alla rilevanza di alcuni stimoli nella propria vita.

Esiste poi un particolare tipo di attenzione, cioè quella strettamente legata alla sopravvivenza: è l’attenzione che ci permette di cogliere nell’ambiente stimoli pericolosi, che, insieme a specifiche parti del nostro cervello (in particolar modo l’amigdala) ci aiutano a stare attenti e decidere come comportarci.

Se sappiamo di maneggiare un coltello appena affilato, staremo molto più attenti, valuteremo con più cautela come utilizzarlo e magari avremo bisogno di più silenzio per l’operazione che dobbiamo fare.

Perché?

Perché l’attenzione  è limitata e preferiremo convogliarla nel comportamento più rischioso.

Ora concentriamoci sulla nostra situazione attuale: quanti hanno fatto attenzione a colpi di tosse e starnuti altrui? Quanti hanno notano se qualcuno passeggiava senza mascherina? Quanti, vedendo gruppi di persone vicine, sentono una strana sensazione corporea? Immagino la maggior parte.

Questo avviene perché questi elementi, fino a 3 mesi fa neutri, sono per noi ora estremamente rilevanti e connessi con la sopravvivenza. Di conseguenza, usiamo tantissima attenzione e quindi energia per processarli, osservarli, monitorarli, pensarli, decidendo poi come comportarci.

Come dicevo prima, la nostra capacità attentiva in un particolare momento è limitata! Significa che è come se fosse un contenitore: posso decidere con cosa riempirlo, ma una volta arrivato al limite non ci posso inserire più niente. Questo avviene anche con l’attenzione.

È importante quindi ricordarci che indubbiamente dobbiamo fare attenzione e impiegare energia per gestire questi nuovi stimoli importanti, ma senza dimenticarci che esistono anche altri input dell’ambiente a cui è fondamentale fare attenzione.

Per esempio, guidare e allo stesso tempo fare -troppa- attenzione se le persone per strada hanno o meno la mascherina, espone noi e gli altri a dei pericoli.

Ma anche uscire per fare attività fisica all’aperto e poi fare -troppa- attenzione ai comportamenti degli altri, non ci aiuterebbe a goderci il momento che si sta prendendo per sé.

La gestione di questi nuovi stimoli ci farà sentire inizialmente in sovraccarico e saremo più stanchi, ma con il tempo riusciremo ad allenarci e a inserire questi nuovi elementi all’interno delle nostre abitudini attentive.

Fase 2. Non sono pronto!

La tanto nominata fase 2 è iniziata, ma, oltre a chi gioisce e pianifica già i propri spostamenti, c’è chi si fa prendere da dubbi e pensieri.

Non per tutti è semplice.

Quel misto di desiderio e timore, quella sicurezza tra le mura della nostra casa, quella routine che ci sembrava impossibile, ma che si è riusciti ad apprezzare. E di cui ora si ha nostalgia.
Per molti questa fase di iniziale riapertura porta con sé un necessario e faticoso riadattamento a velocità, movimenti, azioni che non si facevano da due mesi.
Ma anche a comportamenti nuovi.
A emozioni combinate in modo nuovo.

*Riuscirò a non toccarmi la faccia?
*E se incontro qualcuno che conosco?
*Riuscirò a rispettare le distanze?
*Cosa farò se qualcuno mi si avvicina?
*Non sono sicuro di riuscire a mettere la mascherina.
*Ho paura di non riuscire a rimettermi nel mondo.
*Ci metto troppo tempo perché controllo tutto.

Cosa fare in questi casi?

Non giudicarsi per questi timori.

Rappresentarsi come fragili, deboli e lenti non aiuta. È una fase talmente nuova nella vita di tutti che non ha senso perdere tempo dicendosi come ci dovremmo sentire. Piuttosto, ascoltiamoci e cerchiamo di capire da quale parte possiamo ricominciare.

Osservare gli altri come modello

Possiamo guardare agli altri e utilizzarli come un modello da seguire. Potremmo confrontarci con il nostro partner, con gli amici, con i figli e prendere spunto dalle loro scelte e dai loro comportamenti. Da sempre, l’apprendimento per imitazione è alla base delle nostre conoscenze: sfruttiamolo in questo momento!

Attendere il nostro tempo.

Ognuno di noi ha tempo differenti, ha “orologi interiori” che si rovinerebbero se dovessero andare più veloci e più lenti.

Scopriamo il nostro tempo, ricerchiamolo.
Pensiamo che, come c’è voluto tempo prima, ci vorrà del tempo anche adesso per riadattarsi e per imparare a vivere con queste nuove “regole sociali”.
Non è migliore chi fa tutto subito.
Facciamo un passo alla volta, con i propri tempi, ritrovando e reinventando il proprio ritmo.

Lutto e Coronavirus

Questo particolare momento della nostra vita ci sta mettendo di fronte a tanta sofferenza, tanti limiti e alla necessità di riadattare i nostri comportamenti e i nostri pensieri.

In una società dove l’immortalità sembrava farla da padrona, dove l’esserci – per sempre e sempre “splendenti” – sembrava la strada maestra, ecco che è arrivato all’improvviso questo virus a farci riscoprire di essere fragili, corporei, mortali.

Morte era una parola che non si pronunciava quasi più; morte era un pensiero che si allontanava. Non erano tanto gli adolescenti a sentirsi immortali, ma la società che li circondava.
E quella stessa società da due mesi si sta scontrando con una morte sconosciuta, sia nelle sue cause che nei suoi comportamenti. La morte in questo periodo è qualcosa di differente e, allo stesso tempo, il lutto, ovvero la manifestazione di dolore per la perdita di una persona cara, si sta svolgendo su un terreno sconosciuto.


Il lutto viene descritto come “il dolore per la scomparsa di persone care e le manifestazioni individuali e collettive che si sviluppano all’interno degli usi e costumi delle singole comunità”. Ho scritto tutta questa definizione perché, se la si legge con attenzione, è chiaro che questo periodo non permette l’espressione luttuosa propria della nostra comunità.
È importante sottolineare che mancano (e sono mancate) molte caratteristiche specifiche:

  • manca quella che possiamo definire una morte dignitosa;
  • mancano i contatti (con il proprio familiare malato/defunto, con il resto della famiglia, con gli amici, con il personale sanitario);
  • mancano i rituali che accompagnano il lutto (per esempio l’accompagnamento, la vestizione, il funerale, il ritrovo della comunità, la visita al cimitero).

Per cercare di dare un senso a quanto stiamo vivendo, possono insorgere rabbia, alimentata ora dalle tante polemiche, e il senso di colpa per avere o non aver fatto/detto/scelto.

La mancanza dei rituali individuali e di comunità è un aspetto centrale in questo periodo: il rituale non serve per superare il lutto, ma per elaborarlo, per poterlo inserire all’interno della propria storia, per poter avere dei ganci concreti nella sensazione di sospensione e incertezza che la morte ci fa percepire.

In attesa di capire/sapere come potremo gestire collettivamente questa situazione di lutto, è importante che ognuno cerchi di rielaborare il lutto individualmente e in famiglia. E per farlo, un suggerimento che io e molti colleghi sentiamo di dare è quello di ricreare dei piccoli riti che vi aiutino in questa fase.

I rituali hanno molta utilità:

  • permettono un’espressione (anche “scomposta”) del dolore, accettata e attesa;
  • creano una condivisione del dolore tra più persone;
  • aiutano a ricostruire la traccia della persona defunta, ri-narrandola;
  • sanciscono un prima e un dopo, dando concretezza.

I rituali possono essere differenti ed essere inventati all’interno delle singole famiglie; alcuni esempi possono essere questi:

  • scrivere dei racconti, anche brevi frasi, che riguardino la persona defunta; questi possono essere condivisi con il resto della famiglia, letti tutti insieme, raccolti in un unico contenitore (se la modalità è cartacea) o in un file;
  • scrivere o dire ciò che si sarebbe voluto dire al defunto;
  • ripercorrere la vita del defunto tramite foto o oggetti a lui appartenuti, in un momento di condivisione con il resto della famiglia (anche tramite video contatti);
  • ricreare all’interno della propria abitazione uno spazio dedicato al defunto (può essere tramite una fotografia, un fiore, un quadro, etc) e prendersi dei momenti per stare con il lui e il suo ricordo;
  • momenti di preghiera;
  • etc.

Questi sono alcuni esempi, ma è importante che ognuno si senta libero di pensare e creare il rituale che sente più opportuno per lui e per la propria famiglia.

È importante pensare ai rituali come un aiuto per una fase di passaggio. Allo stesso tempo, è importante che ognuno si senta libero di vivere il dolore come riesce, cercando di non negarlo, ma nemmeno esprimerlo ad ogni costo.

E’ importante ricordarsi che il lutto è una fase lunga, che dura mesi: leggo molte previsioni catastrofiche circa l’evoluzione “patologica” dei lutti vissuti in questo periodo, ma la verità è che nessuno sa come andrà. Non lasciamoci coinvolgere e condizionare da una previsione pessimistica.


Qualche riflessione circa il lutto vissuto dai vostri figli e il loro coinvolgimento nei rituali.

Cosa fare con i bambini?

  • Fateli partecipare, non obbligandoli, ma permettendo loro di prendere parte all’esperienza della famiglia; con il fine di proteggerli dal dolore, si potrebbe avere la conseguenza di aumentarlo e incrementare l’incomprensione rispetto ad alcuni comportamenti dei genitori.
  • Anche se la vostra famiglia non ha subito un lutto, è probabile che alcuni amici o compagni di scuola possano aver perso un caro; spiegate loro cosa sta succedendo in tante famiglie, con parole semplici, ma chiare.
  • Permettete loro di esprimere le emozioni, anche tramite il disegno: che sia per un familiare defunto, per un amico che ha perso il nonno, per una maestra, permettete loro di rielaborare il loro lato emotivo interno tramite questa attività mai banale.

Cosa fare con gli adolescenti?

  • Non giudicate dalla copertina: ognuno di loro ha espressione differente del dolore, del coinvolgimento, della vicinanza, dello stare insieme nei momenti difficili. Cercate di comprenderli, ma non di giudicarli.
  • Rispettate il loro spaesamento, soprattutto se dovuto alla perdita di una persona cara, per esempio di un nonno: se non manifestano apertamente il loro dolore non significa che non tenessero a quella persona, significa che è quello che riescono a fare e mostrare in questo momento.
  • Non considerateli superficiali: rispetto a noi adulti, gli adolescenti si interfacciano pienamente nel dramma della finitezza, del tempo che passa e cambia, nella concretezza di un corpo (il loro) che avevano imparato a conoscere e ora, cambiando, non c’è più. Gli adolescenti sperimentano la consapevolezza che la morte esiste, escono dalla protezione dell’onnipotenza infantile e si affacciano alla realtà concreta e mortale. Questo con la superficialità non c’entra nulla.

Com’è la vostra stanza d’attesa?

Nei giorni scorsi, tra le varie ricerche in internet e letture, mi sono imbattuta in un sondaggio in cui si chiedeva al campione intervistato di dire che tipo di emozioni stavano provando in questo periodo.

Tra i vari valori, vorrei concentrarmi sui primi tre: un grande percentuale (52%) afferma di percepire incertezza; il 38% speranza; il 33% vulnerabilità.

Molti di noi possono rivedersi in questi dati: stiamo vivendo una condizione di instabilità, che non sappiamo quanto durerà, che ci rende scoperti rispetto alle nostre certezze, alla nostra prevedibile quotidianità.

È normale percepirci vulnerabili, perché stiamo affrontando una realtà a cui nessuno di noi era preparato. La vulnerabilità è proprio questo: avere la sensazione di non avere sufficienti elementi per comprendere, valutare e decidere cosa poter fare.  È come se da un giorno all’altro ci fossimo trovati a dover fare i conti, senza avere i numeri. O a disegnare, senza avere pastelli.

Non sappiamo quanto durerà questa situazione, anche se ormai si è fatta strada l’ipotesi che dovremo conviverci molto più a lungo di quanto pensavamo un mese fa.

Viviamo sospesi, in una bolla. Viviamo in attesa.


Attesa” è una parola neutra, è un contenitore in cui ognuno di noi mettere le proprie predisposizioni, emozioni, comportamenti, scelte.

Permettetemi una metafora: è come se fosse una stanza, in cui ognuno di noi è stato catapultato.
La caratteristica più importante di questa stanza è che possiamo arredarla come preferiamo. Certo, le mode del momento, quello che ci suggeriscono gli altri, quello che abbiamo sentito dire, le nostre precedenti esperienze, tutto questo ci condiziona e per certi versi è un bene. Se fosse pieno inverno, sarebbe estremamente utile sapere che le finestre non possono stare aperte tutto il giorno, altrimenti sprecheremmo il calore interno e rischieremmo di congelarci.

In tutti questi elementi esterni, però, noi facciamo la differenza. Siamo noi che arrediamo la stanza.

Nell’incertezza del futuro, nella vulnerabilità che percepiamo, nella speranza che ricerchiamo nell’oggi e nel domani, un’importante strategia è concentrarci sul presente.

Com’è arredata oggi la nostra attesa? Di cosa l’abbiamo riempita nelle settimane scorse? Qual è il suo colore prevalente? Che odore pervade l’interno? Che suono si sente? È ordinata o caotica? La finestra (mettetela la finestra) lascia entrare e uscire l’aria? E la luce?
Vogliamo mantenere l’arredamento o vogliamo cambiare mobili?

E la porta? È chiusa, accostata o spalancata? Disturbo o accolgo? Lascio entrare qualcuno?

E se la nostra stanza d’attesa ora è scomoda, proviamo a trovare o a ricreare un luogo confortevole in cui sostare e rifugiarsi. Cerchiamo di coltivare quella speranza e fiducia in noi stessi e nelle nostre risorse.

Ora spostiamo lo sguardo: “come stanno vivendo l’attesa le altre persone che vivono con me? Posso imparare qualcosa da loro o posso essere utile? Posso accoglierli nella mia stanza o posso fare una visita nella loro?”.


Un’ultima riflessione per chi ha figli, in particolar modo adolescenti.

Sono nati e cresciuti in un mondo immediato, in cui le domande e le risposte, quasi certezze granitiche, sono facilmente accessibili con un clic.
Noi abbiamo imparato a vivere in quel mondo immediato; loro ci sono nati e si sono formati in quel mondo.Questa attesa e questa incertezza, se sono nuove per noi, sono ancora più inedite per lorosono forzatamente obbligati ad attendere, a doversi relazione con la frustrazione del non sapere quando la vita (soprattutto sociale) riprenderà e come riprenderà.Questo aspetto, insieme a tanta precarietà negativa, sta offrendo a loro un’occasione unica. Faticosa, destabilizzante, incerta; ma unica.

Cerchiamo di capire come stanno arredando la loro stanza dell’attesa, cerchiamo di rispettare le loro scelte e i loro gusti; e offriamo loro la nostra stanza (che magari sarà l’opposto!) con cui potercisi confrontare.

Quale abito per le nostre giornate?

Sono giorni surreali e altalenanti, per tutti.

C’è chi ha subito uno (o più) lutti.
C’è chi ha o avrà difficoltà lavorative.
C’è chi non sa più come far passare le giornate.
C’è chi con la propria professione è in prima linea, tra responsabilità e rischi.
C’è chi si è dedicato a molte attività casalinghe.
C’è chi è insofferente allo stare in casa.
C’è chi è sovraccarico di informazioni e si sta estraniando da tutto.
E così via.

Un qualcosa che ci accomuna in questo periodo è lo stravolgimento delle nostre giornate.
Se pensiamo a un mese fa, la nostra vita ci appare lontana, differente, impegnata in faccende che ora non possiamo più fare, in pensieri che oggi forse hanno perso di senso, per lasciare spazio ad altro.

Ci viene suggerito di riorganizzare il nostro tempo.
Facile? Difficile? Ma soprattutto…perché?


Perché ci viene suggerito di riorganizzare il nostro tempo?

Perché da sempre la vita e le giornate sono scandite da cicli, che, stando al nome, sono ricorrenti: ci permettono cioè di organizzarci, prepararci, avere un’anticipazione di ciò che accadrà, avere una porzione di controllo.
Questo è utile, perché rassicura e ci da la possibilità di sentirci capaci di gestire.

Nel riorganizzare il tempo, ci viene suggerito quindi di crearci delle nuove abitudini.
Alcuni riescono, ma per molti questa ricerca di una nuova routine è faticosa, non accompagnata da energia e non in linea con il proprio stato d’animo.
È fastidioso parlare di attivarsi in nuove abitudini, quando si è ancora confusi e frastornati da quello che ci circonda.

Mi è quindi venuto in mente di ricercare l’etimologia della parola abitudine e alla sua base c’è abito.

Abito: qualcosa che indossiamo, che ci copre, che ci differenzia, che ci etichetta, che ci rappresenta.
E abito come legato all‘abitare, allo stare in un luogo, a viverlo, a renderlo confortevole nei nostri termini, a riempirlo o svuotarlo per farci sentire a casa.

Credo che non sia utile costringersi (più di quello che già fa il mondo esterno) a creare nuove abitudini.
Credo sia importante cogliere e accettare “l’abito” che è in noi, “l’abito” che siamo noi in questo momento, senza giudicarci se ci sentiamo senza energie o tristi o iperattivi o annoiati o pieni di idee.

Quale “abito” stiamo portando in questi giorni? Ci stiamo permettendo di indossare “l’abito” che fa più per noi?
E come vivo l’abitare oggi? Riesco a rispettare i differenti “abiti e modi di abitare” che ci sono nelle nostre case e che siamo costretti a condividere?

Accettare e non giudicare come ci sentiamo è fondamentale. Possiamo spiegarlo a chi ci circonda, con le dovute differenze in base all’età.

Provate a pensare alla sensazione che avreste stando in pubblico con un vestito che non vi rappresenta.
Non costringiamo noi e gli altri a vivere emozioni che non stanno vivendo, a fare cose che non sentono li possano aiutare.
La forza delle emozioni è il fatto che non sono giuste o sbagliate; esistono.

Possiamo accettare i suggerimenti, ma non costringerci; possiamo spronare l’altro, ma non obbligare.

Che ognuno indossi il proprio “abito” in questi giorni; magari sarò proprio grazie a questa attesa che scoprirà l’esigenza, o l’utilità, di indossarne uno nuovo.

Ma quante emozioni abbiamo?!

Ripercorrendo le ultime settimane ci possiamo accorgere che le nostre giornate sono state cariche di emozioni, spesso contrastanti.

Capita di passare dalla preoccupazione, alla leggerezza, all’ansia, la paura, la confusione, la gioia, la rabbia, la speranza, la noia. È solo un breve elenco e ognuno di voi, data la sua personale situazione in questo momento, propenderà per alcune sfumature emotive.

Quello che è importante dire innanzitutto è che è una reazione assolutamente normale.

Noi tutti, anche chi come me sta scrivendo queste righe ed è “esperto in materia”, stiamo vivendo un’esperienza nuova; per questo motivo il nostro organismo e la nostra mente reagiscono cercando di interpretare quello che vedono/sentono/ricevono e farci provare delle emozioni che indirizzino il nostro comportamento.

È proprio così.

Semplificando l’estrema complessità umana, accade più o meno questo: uno stimolo esterno viene recepito dai nostri sensi, che lo interpretano; vengono poi create delle reazioni corporee ed emotive, che indirizzano il nostro comportamento.

Le emozioni quindi sono utilissime e soprattutto ci aiutano a orientarci nelle nostre scelte comportamentali. Questo vale per tutte le emozioni, anche per quelle che vengono definite negative.

Capiterà, soprattutto in questi giorni, di entrare in contatto con tante emozioni, nostre o degli altri.

In che modo ci aiutano queste emozioni?

Proviamo a focalizzarci su alcune delle più comuni.

PREOCCUPAZIONE: ci insegna a frenare, a considerare le conseguenze (quando ancora non ci toccano), ad arrivare quanto più preparati al momento della scelta del comportamento o della decisione.

LEGGEREZZA: ci insegna a sdrammatizzare, a focalizzarci sulle piccole abitudini piacevoli, a svagarci, ad abbassare la tensione, a proteggerci da ciò che ci fa soffrire.

ANSIA (fisiologica o buona): ci insegna a concentrare le nostre risorse e impiegarle per un obiettivo o una situazione importante; ci fa percepire il brivido dell’imprevisto e del non avere la certezza di quello che accadrà, ma allo stesso tempo ci spinge ad agire e a metterci in gioco.

PAURA: ci insegna che dobbiamo fare attenzione ad alcune situazioni o eventi pericolosi per noi, e ce li definisce, così sono rintracciabili per noi e possiamo evitarli o gestirli. La paura è la prima emozione che il nostro organismo ha creato nella nostra evoluzione per difenderci.

CONFUSIONE: ci insegna che stiamo pretendendo troppo da noi, che siamo sovraccaricati da pensieri o da altre emozioni; ci insegna che è importante fermarsi e ritrovare un punto di riferimento (magari scoprendo che lo troviamo in noi stessi!).

GIOIA: ci insegna a stare nel tempo presente, a goderci quel che abbiamo, a ridere, a desiderare che quello che stiamo vivendo duri il più a lungo possibile.

RABBIA: ci insegna che qualcosa non ci fa stare bene, ci fa stare scomodi con noi stessi o con gli altri; ci insegna che possiamo avere e creare dentro di noi tanta energia, da convogliare per difendere i nostri diritti e aumentare il nostro benessere come persone.

SPERANZA: ci insegna che esiste una via d’uscita, una luce; ci insegna che le situazioni possono migliorare, che noi e gli altri possiamo dare un importante contributo, che possiamo pianificare un percorso seguendo quell’obiettivo.

NOIA: ci insegna a vivere la passività, l’uniformità e la monotonia; ci insegna a rielaborare i pensieri, a metterli in ordine mentre noi non ce ne accorgiamo; ci insegna che possiamo essere creativi e possiamo fidarci delle nostre risorse, senza attendere passivamente le indicazioni di qualcun altro.

Quali di queste emozioni state provando maggiormente? Chi vi sta vicino sta provando emozioni differenti rispetto alle vostre?

È importante accettare le emozioni che proviamo, ma anche provare a coltivare quelle che non stiamo provando.

È l’aiuto che possiamo dare a noi stessi e agli altri, iniziando da questa situazione nuova.