Archivio mensile:Maggio 2020

Ci manca la scuola!

A scuola ci siamo andati tutti, ma crescendo veniamo spesso colti da amnesia circa cosa significasse, davvero, andare a scuola.

In questi mesi abbiamo letto, ascoltato, discusso sulle modalità di gestire la scuola, su ciò che sarebbe stato meglio per gli studenti (dall’asilo alla maturità), su come non far perdere loro l’anno, sui voti, sulle ammissioni, ect.

Forse però, indaffarati in tutto questo, ci siamo dimenticati il significato più profondo della Scuola. 

Ce l’hanno ricordato i ragazzi; “ci manca la scuola!” ci hanno detto, facendoci allora capire che quello che stavano vivendo dal pc era la migliore versione attuale, ma assolutamente non paragonabile all’originale.

La scuola è conoscenze, è apprendimento, è didattica. Si, ma di che tipo?


CONOSCENZE

Nell’ambiente scolastico si conoscono le persone che con molta probabilità ci accompagneranno nella vita, che ci staranno vicino nei momenti importanti e che condivideranno gioie, scoperte, timori.

Si conoscono anche persone che ci ostacolano, che non ci fanno sentire accettati, che probabilmente ci giudicano; anche queste conoscenze, e il nostro modo di reagirvi, sarà nei nostri ricordi per il resto della vita.

Si conoscono modi di vivere differenti rispetto a quelli della propria famiglia, si conoscono abitudini nuove (a volte bizzarre!), si viene a conoscenza di strategie alternative per affrontare i piccoli problemi quotidiani.

A scuola si possono conoscere parti di noi che in famiglia non avevamo mai colto.

APPRENDIMENTO

A scuola si impara cosa significa vivere in una comunità. A scuola di impara a socializzare, a vivere insieme agli altri; si impara che le proprie esigenze possono essere in linea o in contrasto con quelle degli altri, e che la via del rispetto (per sé stessi e per gli altri) è la più utile – in teoria, ma la più difficile – nella pratica. Si apprendono una marea di sfumature relazionali e di regole non scritte.

Si apprende per imitazione, osservando gli altri, studiano le loro reazioni agli scherzi, ai complimenti, all’isolamento, alle cattiverie, alle difficoltà, ai fallimenti, ai successi.

Si apprende che “magari se il mio compagno sa fare una cosa, posso provarci anch’io e magari anch’io posso essere imitato in qualcosa”.

Si apprende che “il cuore mi può battere forte perché sono agitato, o forse perché ho incontrato qualcuno che mi piace”.

Si è catapultati nelle gioie e nei dolori della vita relazionale. E si impara a navigarci dentro.

DIDATTICA

A scuola si entra in contatto con tanti modi di intendere la didattica, che potrebbero anche essere intesi come i tanti modi possibili in cui essere adulti.

Ripensiamo per un attimo agli insegnanti avuti durante tutto il nostro ciclo scolastico. Potremo avere un ventaglio abbastanza variegato di caratteristiche, modi di essere, modi di lavorare, modi di relazionarsi, modi di affrontare l’impegno, modi di essere precisi o seri o creativi o noiosi. Noi, in quegli anni, abbiamo in qualche modo risposto a quei modi di essere e quelle nostre risposte o considerazioni (spesso poco consapevoli) ci hanno aiutati ad essere gli adulti di oggi.

Entrare in contatto con la didattica a scuola significa entrare in contatto con il mondo adulto; seguirlo, criticarlo, non comprenderlo, osteggiarlo, condividerlo, etc. E, mentre si entra in contatto con gli insegnanti, primo mondo adulto oltre la famiglia, ci si forma come persone.


È questa la scuola che manca.

Ritornare mentalmente ai nostri anni scolastici è una buona strategia per comprendere maggiormente il punto di vista dei bambini e dei ragazzi. Avranno ricevuto conoscenze, apprendimento e didattica in questi mesi; i docenti (e i genitori) si sono dati un gran da fare e hanno fatto il meglio possibile.

Ma agli studenti manca quel tipo di scuola, quel tipo di conoscenze, di apprendimento e di didattica che non vedono l’ora di tornare ad assaporare e vivere.

Ricordiamocelo quando parliamo con loro; lo dobbiamo fare per quella parte di ragazzini che è ancora in noi.

Attenzione a cosa fai attenzione!

Foto di Tumisu da Pixabay

Facciamo un viaggio nel passato, a tre mesi fa.

Decidendo di uscire di casa ci saremmo vestiti, avremmo preso il necessario, le chiavi di casa e/o della macchina e saremmo usciti. Gesti automatici, poca concentrazione.

Oggi nell’uscire di casa dobbiamo inserire altre azioni, prima mai vissute: indossare la mascherina; ricordarci i guanti e igienizzare le mani; non toccarci il volto; osservare dove appoggiamo le nostre borse e chi incrociamo in strada o tra gli scaffali del supermercato; igienizzare la macchina, se la usiamo; incontrare, ma non toccare né abbracciare i parenti e le persone per noi significative; igienizzare più volte le mani e lavarle bene quando rientriamo a casa.

Quello che è cambiato da 3 mesi a questa parte è l’uso della nostra attenzione.


Ma cosa è l’attenzione?

Per attenzione si intende un processo cognitivo complesso che ci permette di organizzare le informazioni che provengono dal mondo e, in base a queste, di regolare la nostra mente, i nostri pensieri e le nostre azioni.

L’attenzione è quella che ci permette di captare determinati stimoli, distinguere tra quelli per noi rilevanti e quelli invece indifferenti, e organizzare una risposta a livello mentale e poi comportamentale. È come se, grazie all’attenzione, avessimo una lente di ingrandimento che si focalizza su alcune parti, tralasciandone altre.

Nella nostra esperienza ci sarà capitato di non capire (e magari arrabbiarci) perché alcune persone non prestano attenzione a eventi o situazioni che per noi sono importanti; oppure non comprendere come, in uno stesso discorso, alcuni si soffermino su punti che noi non avevamo nemmeno colto.

Questo accade appunto perché ognuno di noi sviluppa un’attenzione differente, in base all’importanza e alla rilevanza di alcuni stimoli nella propria vita.

Esiste poi un particolare tipo di attenzione, cioè quella strettamente legata alla sopravvivenza: è l’attenzione che ci permette di cogliere nell’ambiente stimoli pericolosi, che, insieme a specifiche parti del nostro cervello (in particolar modo l’amigdala) ci aiutano a stare attenti e decidere come comportarci.

Se sappiamo di maneggiare un coltello appena affilato, staremo molto più attenti, valuteremo con più cautela come utilizzarlo e magari avremo bisogno di più silenzio per l’operazione che dobbiamo fare.

Perché?

Perché l’attenzione  è limitata e preferiremo convogliarla nel comportamento più rischioso.

Ora concentriamoci sulla nostra situazione attuale: quanti hanno fatto attenzione a colpi di tosse e starnuti altrui? Quanti hanno notano se qualcuno passeggiava senza mascherina? Quanti, vedendo gruppi di persone vicine, sentono una strana sensazione corporea? Immagino la maggior parte.

Questo avviene perché questi elementi, fino a 3 mesi fa neutri, sono per noi ora estremamente rilevanti e connessi con la sopravvivenza. Di conseguenza, usiamo tantissima attenzione e quindi energia per processarli, osservarli, monitorarli, pensarli, decidendo poi come comportarci.

Come dicevo prima, la nostra capacità attentiva in un particolare momento è limitata! Significa che è come se fosse un contenitore: posso decidere con cosa riempirlo, ma una volta arrivato al limite non ci posso inserire più niente. Questo avviene anche con l’attenzione.

È importante quindi ricordarci che indubbiamente dobbiamo fare attenzione e impiegare energia per gestire questi nuovi stimoli importanti, ma senza dimenticarci che esistono anche altri input dell’ambiente a cui è fondamentale fare attenzione.

Per esempio, guidare e allo stesso tempo fare -troppa- attenzione se le persone per strada hanno o meno la mascherina, espone noi e gli altri a dei pericoli.

Ma anche uscire per fare attività fisica all’aperto e poi fare -troppa- attenzione ai comportamenti degli altri, non ci aiuterebbe a goderci il momento che si sta prendendo per sé.

La gestione di questi nuovi stimoli ci farà sentire inizialmente in sovraccarico e saremo più stanchi, ma con il tempo riusciremo ad allenarci e a inserire questi nuovi elementi all’interno delle nostre abitudini attentive.

Fase 2. Non sono pronto!

La tanto nominata fase 2 è iniziata, ma, oltre a chi gioisce e pianifica già i propri spostamenti, c’è chi si fa prendere da dubbi e pensieri.

Non per tutti è semplice.

Quel misto di desiderio e timore, quella sicurezza tra le mura della nostra casa, quella routine che ci sembrava impossibile, ma che si è riusciti ad apprezzare. E di cui ora si ha nostalgia.
Per molti questa fase di iniziale riapertura porta con sé un necessario e faticoso riadattamento a velocità, movimenti, azioni che non si facevano da due mesi.
Ma anche a comportamenti nuovi.
A emozioni combinate in modo nuovo.

*Riuscirò a non toccarmi la faccia?
*E se incontro qualcuno che conosco?
*Riuscirò a rispettare le distanze?
*Cosa farò se qualcuno mi si avvicina?
*Non sono sicuro di riuscire a mettere la mascherina.
*Ho paura di non riuscire a rimettermi nel mondo.
*Ci metto troppo tempo perché controllo tutto.

Cosa fare in questi casi?

Non giudicarsi per questi timori.

Rappresentarsi come fragili, deboli e lenti non aiuta. È una fase talmente nuova nella vita di tutti che non ha senso perdere tempo dicendosi come ci dovremmo sentire. Piuttosto, ascoltiamoci e cerchiamo di capire da quale parte possiamo ricominciare.

Osservare gli altri come modello

Possiamo guardare agli altri e utilizzarli come un modello da seguire. Potremmo confrontarci con il nostro partner, con gli amici, con i figli e prendere spunto dalle loro scelte e dai loro comportamenti. Da sempre, l’apprendimento per imitazione è alla base delle nostre conoscenze: sfruttiamolo in questo momento!

Attendere il nostro tempo.

Ognuno di noi ha tempo differenti, ha “orologi interiori” che si rovinerebbero se dovessero andare più veloci e più lenti.

Scopriamo il nostro tempo, ricerchiamolo.
Pensiamo che, come c’è voluto tempo prima, ci vorrà del tempo anche adesso per riadattarsi e per imparare a vivere con queste nuove “regole sociali”.
Non è migliore chi fa tutto subito.
Facciamo un passo alla volta, con i propri tempi, ritrovando e reinventando il proprio ritmo.

Lutto e Coronavirus

Questo particolare momento della nostra vita ci sta mettendo di fronte a tanta sofferenza, tanti limiti e alla necessità di riadattare i nostri comportamenti e i nostri pensieri.

In una società dove l’immortalità sembrava farla da padrona, dove l’esserci – per sempre e sempre “splendenti” – sembrava la strada maestra, ecco che è arrivato all’improvviso questo virus a farci riscoprire di essere fragili, corporei, mortali.

Morte era una parola che non si pronunciava quasi più; morte era un pensiero che si allontanava. Non erano tanto gli adolescenti a sentirsi immortali, ma la società che li circondava.
E quella stessa società da due mesi si sta scontrando con una morte sconosciuta, sia nelle sue cause che nei suoi comportamenti. La morte in questo periodo è qualcosa di differente e, allo stesso tempo, il lutto, ovvero la manifestazione di dolore per la perdita di una persona cara, si sta svolgendo su un terreno sconosciuto.


Il lutto viene descritto come “il dolore per la scomparsa di persone care e le manifestazioni individuali e collettive che si sviluppano all’interno degli usi e costumi delle singole comunità”. Ho scritto tutta questa definizione perché, se la si legge con attenzione, è chiaro che questo periodo non permette l’espressione luttuosa propria della nostra comunità.
È importante sottolineare che mancano (e sono mancate) molte caratteristiche specifiche:

  • manca quella che possiamo definire una morte dignitosa;
  • mancano i contatti (con il proprio familiare malato/defunto, con il resto della famiglia, con gli amici, con il personale sanitario);
  • mancano i rituali che accompagnano il lutto (per esempio l’accompagnamento, la vestizione, il funerale, il ritrovo della comunità, la visita al cimitero).

Per cercare di dare un senso a quanto stiamo vivendo, possono insorgere rabbia, alimentata ora dalle tante polemiche, e il senso di colpa per avere o non aver fatto/detto/scelto.

La mancanza dei rituali individuali e di comunità è un aspetto centrale in questo periodo: il rituale non serve per superare il lutto, ma per elaborarlo, per poterlo inserire all’interno della propria storia, per poter avere dei ganci concreti nella sensazione di sospensione e incertezza che la morte ci fa percepire.

In attesa di capire/sapere come potremo gestire collettivamente questa situazione di lutto, è importante che ognuno cerchi di rielaborare il lutto individualmente e in famiglia. E per farlo, un suggerimento che io e molti colleghi sentiamo di dare è quello di ricreare dei piccoli riti che vi aiutino in questa fase.

I rituali hanno molta utilità:

  • permettono un’espressione (anche “scomposta”) del dolore, accettata e attesa;
  • creano una condivisione del dolore tra più persone;
  • aiutano a ricostruire la traccia della persona defunta, ri-narrandola;
  • sanciscono un prima e un dopo, dando concretezza.

I rituali possono essere differenti ed essere inventati all’interno delle singole famiglie; alcuni esempi possono essere questi:

  • scrivere dei racconti, anche brevi frasi, che riguardino la persona defunta; questi possono essere condivisi con il resto della famiglia, letti tutti insieme, raccolti in un unico contenitore (se la modalità è cartacea) o in un file;
  • scrivere o dire ciò che si sarebbe voluto dire al defunto;
  • ripercorrere la vita del defunto tramite foto o oggetti a lui appartenuti, in un momento di condivisione con il resto della famiglia (anche tramite video contatti);
  • ricreare all’interno della propria abitazione uno spazio dedicato al defunto (può essere tramite una fotografia, un fiore, un quadro, etc) e prendersi dei momenti per stare con il lui e il suo ricordo;
  • momenti di preghiera;
  • etc.

Questi sono alcuni esempi, ma è importante che ognuno si senta libero di pensare e creare il rituale che sente più opportuno per lui e per la propria famiglia.

È importante pensare ai rituali come un aiuto per una fase di passaggio. Allo stesso tempo, è importante che ognuno si senta libero di vivere il dolore come riesce, cercando di non negarlo, ma nemmeno esprimerlo ad ogni costo.

E’ importante ricordarsi che il lutto è una fase lunga, che dura mesi: leggo molte previsioni catastrofiche circa l’evoluzione “patologica” dei lutti vissuti in questo periodo, ma la verità è che nessuno sa come andrà. Non lasciamoci coinvolgere e condizionare da una previsione pessimistica.


Qualche riflessione circa il lutto vissuto dai vostri figli e il loro coinvolgimento nei rituali.

Cosa fare con i bambini?

  • Fateli partecipare, non obbligandoli, ma permettendo loro di prendere parte all’esperienza della famiglia; con il fine di proteggerli dal dolore, si potrebbe avere la conseguenza di aumentarlo e incrementare l’incomprensione rispetto ad alcuni comportamenti dei genitori.
  • Anche se la vostra famiglia non ha subito un lutto, è probabile che alcuni amici o compagni di scuola possano aver perso un caro; spiegate loro cosa sta succedendo in tante famiglie, con parole semplici, ma chiare.
  • Permettete loro di esprimere le emozioni, anche tramite il disegno: che sia per un familiare defunto, per un amico che ha perso il nonno, per una maestra, permettete loro di rielaborare il loro lato emotivo interno tramite questa attività mai banale.

Cosa fare con gli adolescenti?

  • Non giudicate dalla copertina: ognuno di loro ha espressione differente del dolore, del coinvolgimento, della vicinanza, dello stare insieme nei momenti difficili. Cercate di comprenderli, ma non di giudicarli.
  • Rispettate il loro spaesamento, soprattutto se dovuto alla perdita di una persona cara, per esempio di un nonno: se non manifestano apertamente il loro dolore non significa che non tenessero a quella persona, significa che è quello che riescono a fare e mostrare in questo momento.
  • Non considerateli superficiali: rispetto a noi adulti, gli adolescenti si interfacciano pienamente nel dramma della finitezza, del tempo che passa e cambia, nella concretezza di un corpo (il loro) che avevano imparato a conoscere e ora, cambiando, non c’è più. Gli adolescenti sperimentano la consapevolezza che la morte esiste, escono dalla protezione dell’onnipotenza infantile e si affacciano alla realtà concreta e mortale. Questo con la superficialità non c’entra nulla.